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PSICOTERAPIA ADLERIANA E KARATE: UN CONNUBIO POSSIBILE? presentazione di un caso clinico

Autori: MARIA LUISA CAVIGLIA, FRANCO STIZZOLI

Riassunto – Individui con disturbi di personalità orientati all’introversione creano difficoltà ad un approccio esclusivamente psicoterapico, soprattutto in adolescenza. Le arti marziali non possono essere definite come sport quale noi lo intendiamo, poiché ne differiscono nella concezione e nei fini, hanno una tradizione e una componente filosofica e formativa e loro scopo principale è il perfezionamento del carattere. Grande accento viene posto sull’autocoscienza, sull’osservazione rispetto all’azione e sull’integrazione corpo-mente, con un’importante componente meditativa. Gli autori espongono il caso di un ragazzo di anni 16, alla cui richiesta di intervento psicoterapeutico si è pensato di rispondere associando ad una psicoterapia psicodinamica una terapia fisicamente orientata, in particolare un’arte marziale, al fine di favorire la mentalizzazione delle emozioni ed un miglioramento della sfera relazionale. La scelta è caduta sul Karate-Do Shotokan perché è tecnica difensiva, non si ha un forte contatto fisico, aiuta a conoscere se stessi e le proprie potenzialità, migliora la coordinazione dei movimenti, favorisce la crescita dell’autostima e l’autocontrollo, insegna ad accettare le regole della convivenza civile, stimola il rispetto e l’amore verso il prossimo. L’intervento psicoterapeutico utilizzato è stato di stampo psicodinamico adleriano, certamente data la formazione specifica della terapeuta, ma ritenuto costrutto idoneo per un approccio integrato, là dove l’attenzione al paziente è globale (biopsicosociale e spirituale), il linguaggio del corpo è centrale e fondamentali sono l’energia intrapsichica e quella relazionale.

 

Summary – ADLERIAN PSYCHOTHERAPY AND KARATE: A POSSIBLE COMBINATION. A CLINICAL CASE. Individuals with introverted personality disorders create difficulties for an exclusively psychotherapeutic approach, especially in the adolescent age. Martial arts can not be defined as a sport as they differ in the conception and purpose, they have a long tradition both a philosophical and training component and have as their main purpose the improvement of character. Great emphasis is placed on self- consciousness, observation over action, integrating body and mind, meditation. The authors expose the case of a 16 year old boy, at whose request psychotherapeutic intervention they responded by associating a physically oriented therapy to a psychodynamic psychotherapy, in particular martial art, in order to encourage emotion mentalizing and relationships improvement. The choice fell on Karate-Do Shotokan because it is a defensive technique, intense physical contact is not used, it helps to know oneself and their potential, improves coordination and self-control, increases self-esteem, teaches observance of the rules of the civil society, stimulates the respect and love towards others. The psychotherapeutic intervention was based on Adlerian psychodynamic, certainly due to the specific training of the therapist, but also because it suitable for an integrated approach: the attention to the patient is global (biopsychosocial and spiritual), body language is central, and the intra- psychic and relational energy is crucial.

Keywords: ADLERIAN PSYCHOTHERAPY; KARATE; COMBINED INTERVENTS

1. Premessa.

Individui con disturbi di personalità fortemente orientati all’introversione possono creare difficoltà ad un approccio esclusivamente psicoterapico, soprattutto in età adolescenziale, considerando la notevole difficoltà di questi soggetti ad esprimersi in maniera dialogica. Intendiamo presentare in questo lavoro un caso clinico in cui si è scelta l’associazione di un percorso psicoterapico di stampo psicodinamico adleriano con l’avviamento alla pratica di Karate Shotokan.

E’ nata così la collaborazione tra una psicoterapeuta adleriana ed un Maestro di Karate Shotokan, 6° Dan, che alle indubbie approfondite conoscenze tecniche associa una rara capacità empatica con allievi di tutte le età, particolarmente evidente con gli adolescenti.

L’attenzione alla persona ci ha spinti a valutare un percorso alternativo che tenesse conto del funzionamento adattivo, della capacità di recupero, dei supporti esistenti, dell’età e dei possibili interessi attivabili nel giovane paziente. Va considerato che risultavano carenze importanti sia sul piano della socializzazione, con problematiche a livello dell’autonomia e dell’indipendenza emotiva dai genitori, sia sul piano dell’identità, con un forte conflitto tra regressione e progressione e conseguente difesa regressiva con blocco della spinta evolutiva e creativa.

Dal concetto dell’unità psiche – soma [4,5,18] abbiamo tratto l’interesse ad utilizzare un’attività sportiva, “corporea”, per raggiungere il versante psichico. Questo approccio ci permette da un lato di avere un punto di vista privilegiato per riconoscere il linguaggio degli organi: «In ogni movimento del corpo, in ogni espressione e in ogni sintomo, noi possiamo vedere l’impronta degli scopi della mente.» [4]; ma d’altro canto ci permette anche di migliorare la mente, che del corpo è motore: «…(la mente) trascina con sé tutte le possibilità potenziali che può scoprire nel corpo, e contribuisce a far assumere al corpo una posizione di sicurezza e di superiorità di fronte a tutte le difficoltà.» [4]

“La lingua greca con “pneuma” e quella ebraica con “ruah” impiegano la stessa parola per designare il respiro del corpo e il suo spirito. Il respiro, infatti non è altro che la continuità del corpo, il suo ritmo, che si esprime in quei sensi come la calma, l’ansia, l’eccitazione, la precipitazione, manifestazioni queste non appartenenti alla moderna riedizione del respiro qual è lo “spirito”, bensì allo “psichico”, che per il suo “carattere espressivo”, diventa un “messaggio” che si dà e si riceve in quello “scambio simbolico” che ha nel “corpo” il suo mediatore. Nel caso dei primitivi e dei bambini, il corpo si trova a produrre quel linguaggio che nasce dall’utilizzazione di sé come sistema di “segni” (espressione di sintomi) per produrre “significati” (esperienze personali come la sofferenza). In questo modo il corpo si stabilisce come “infralingua”, prestandosi a tradurre un ordine simbolico in un altro.” (13)

La scelta del Karate tradizionale nasce dall’osservazione di come in questa pratica si attui un’assunzione di responsabilità nei propri confronti (DOJO KUN, le regole del Karate Shotokan) [26,27] e nei confronti dei compagni, e in ultima analisi si realizzi un’equilibrata articolazione del sentimento di autoaffermazione con il sentimento sociale. Si attiva inoltre un sistema motivazionale cooperativo, poiché il karate è sia sollecitazione corporea che fare con l’Altro. Si tratta di una tecnica fondamentalmente difensiva, in cui non si arriva al contatto fisico se non controllato, che permette uno sviluppo motorio armonico, aiuta a conoscere se stessi e le proprie potenzialità, migliora la coordinazione dei movimenti, favorisce il processo di crescita dell’autostima e l’autocontrollo, insegna ad accettare le regole della convivenza civile, stimola il rispetto e l’amore verso il prossimo.

1.1.La Psicoterapia Adleriana

Fin dai primi scritti di Alfred Adler l’unità psico-somatica è uno dei paradigmi centrali della teoria individualpsicologica, supportato peraltro dalle concezioni attuali sul modello psicobiologico della personalità [7]. Nella correlazione psiche – soma, Adler descrive il linguaggio o gergo degli organi [2] come il sistema con cui le funzioni del corpo manifestano le finalità della psiche e in qualche modo tendono alla loro realizzazione. L’espressione visibile poggia su valenze sia intrapsichiche che relazionali, per cui il corpo diventa strumento di finalità consce e inconsce dell’individuo, inserendosi a definire lo stile di vita [16]. «L’individuo impiegherebbe gli organi per agire sull’ambiente a proprio vantaggio, utilizzando certo talvolta dei simboli, ma anche degli interventi pragmatici in grado di mobilitare o punire altre persone». [15]

L’atteggiamento corporeo [3] (spalle curve, andatura lenta, sguardo sfuggente o volto a terra, tono di voce molto basso) mostra bene l’utilizzo di un linguaggio non discorsivo, ma altrettanto o forse più significativo. La struttura corporea (gracile, cute pallida, bassa statura) ci offre un quadro di inferiorità d’organo [1] sottesa ad un presumibile stato di disagio che a sua volta induce a successive compensazioni. Il dinamismo psichico secondo la concezione adleriana fa sì che l’interazione psiche – soma si muova in maniera funzionale o disfunzionale ma sempre allo scopo di raggiungere la meta della sicurezza. Le compensazioni [2] utilizzate (soppressione delle emozioni, evitamento del conflitto, negazione) forniscono al soggetto un controllo dominante sull’ambiente ed un’aggressività tanto potente quanto mascherata vissuta nel non parlare, nel disinteresse verso attività varie e nel conseguente ritiro sociale.

A livello terapeutico, il processo di incoraggiamento [9] diventa elemento fondante, in quanto tecnica transmotivante affinché l’individuo possa riprendere lo sviluppo del Sé. Questo può avvenire attraverso il passaggio da un livello motivazionale ad un altro attraverso una compartecipazione empatica [18], modulata attraverso l’attenzione e la fiducia del terapeuta.

Necessaria si rivela ovviamente l’alleanza terapeutica Negoziata (delimitazione temporale), di Lavoro (fondata sull’empatia), Terapeutica (col patto di non abbandono anche dopo la chiusura dell’intervento) [21].

Adler riconobbe nell’uomo due istanze fondamentali: volontà di potenza e sentimento sociale, in equilibrio dinamico tra loro e instabile, da intendersi come bisogni radicati nel carattere [20]. La volontà di potenza canalizza dinamiche compensatorie all’intollerabile quanto fisiologico sentimento d’inferiorità di ogni essere umano, e si configura come un’energia che spinge l’uomo verso mete di affermazione personale, di confronto competitivo e di autoprotezione per la sopravvivenza [14]. Per raggiungere la stabilità e l’equilibrio, la volontà di potenza interagisce col sentimento sociale, l’altra istanza rappresenta la necessità dell’essere umano di cooperare e di entrare in compartecipazione empatica coi suoi simili. Il sentimento sociale esiste nell’uomo come potenzialità da sviluppare, inizialmente tramite la relazione madre-bambino e successivamente nell’adesione all’ideale comune, in modo che le richieste personali non sono vissute in contrasto con quelle sociali [4]. Il sentimento sociale funge anche da forza aggregante intrapsichica, fornendo un’immagine di sé coerente e coesa, favorendo l’azione sia di tipo processuale che oggettuale, quando l’individuo è in rapporto con gli altri [22].

La Psicoterapia Individuale ha una forte correlazione con l’atteggiamento mentale di chi pratica Karate, nella continuità tra l’intrapsichico e il relazionale presente nei fondamenti epistemologici [19].

1.2.Il Karate Shotokan

Le arti marziali non possono essere definite precisamente con il termine di “sport” quale noi lo intendiamo oggi: se ne distanziano infatti nella concezione e negli scopi; hanno una tradizione ed una componente filosofica e formativa che va oltre la semplice parte agonistica. Esse sono nate con motivazioni e per esigenze precise, e anche il loro corso storico ha significato. Per loro stessa definizione, il loro scopo è il perfezionamento del carattere. Si evince una differenza fondamentale: gli sport occidentali tendono ad enfatizzare la competizione ed il gioco, mentre le arti marziali orientali hanno posto più l’accento sull’autoconoscenza e sulla conoscenza dell’altro (l’avversario). Hanno quindi alla base una filosofia esistenziale, che enfatizza l’osservazione rispetto all’azione e l’integrazione tra corpo e mente, con una forte componente meditativa.

La parola giapponese Dōjō (道場) [26] indica il luogo in cui si svolgono gli allenamenti delle arti marziali, non necessariamente solo Karate ma anche qualsiasi altra disciplina marziale giapponese. Con questa parola si indica il luogo materiale dove si pratica la disciplina marziale; ma seguendo la naturale sensibilità giapponese, col tempo la parola è andata ad indicare tutta la vita che si svolge all’interno di queste mura. Dōjō è una parola formata da due kanji: il primo, 道 dou, sta ad indicare la Strada, la Via, gli Insegnamenti, mentre il secondo ideogramma della parola è 場 Jou, cioè Spazio, Luogo. Ecco allora che il Dōjō sta ad indicare un luogo dove è possibile apprendere la via, la strada, ricevere degli insegnamenti. E’ un termine che porta dentro di sé l’essenza buddhista: è stato infatti ereditato dal buddhismo cinese che lo usava per indicare i luoghi dove il Buddha amava ritirarsi e ottenere, attraverso le sue meditazioni e le sue pratiche, saggezza e insegnamenti. Influenzato poi dalla tradizione Zen, il termine venne impiegato nelle arti e nelle varie discipline marziali: il Karate tra questi [26]. In Occidente il termine dōjō viene tradotto, forse in modo molto approssimativo, con “palestra” inteso come unico spazio riservato all’allenamento, ma nella cultura orientale è rimasto il significato di luogo dove si raggiunge, seguendo la Via, la perfetta unione di mente e corpo, un perfetto equilibrio e la massima realizzazione della propria individualità.

Il dōjō ha regole ben precise che ognuno ne faccia parte ha il dovere di rispettare. Quando gli allievi indossano l’uniforme, il keikogi, diventano tutti uguali dinanzi al sensei (Maestro): non esiste più alcuna condizione sociale, stato, professione, ma si è tutti uguali e sullo stesso livello. Ci si cura di se stessi, della scuola e di ciò che si ha intorno: si acquisisce un’etica tale da assumere una nuova forma di comportamento dedita al coraggio, alla gentilezza, al reciproco aiuto e al rispetto.

Lo stile Shotokan [26,27], nato dall’omonima scuola, è stato codificato e creato dal Maestro Gichin Funakoshi (n.1868 – m.1957). Il nome significa Sala della Brezza della Pineta (dal giapponese 松濤 Shoto, Vento della Pineta, e 館 Kan, Sala in riferimento al dojo). Shoto era anche lo pseudonimo con il quale il Maestro Funakoshi era solito firmare i suoi componimenti.

La pratica dello Shotokan [27] è in genere divisa in tre parti: kihon, kata e kumite.
Il Kihon è costituito dai fondamentali e lo studio del Kihon avviene attraverso la continua ripetizione delle mosse: sta al Maestro stabilire, per ogni grado, a quale stato di perfezione dell’esecuzione l’allievo deve aspirare.
I Kata invece sono una sequenza codificata di tecniche e movimenti. La parola Kata 型 è traducibile come Modello, Esempio, Forma ed indica una serie di movimenti ordinati e codificati che rappresentano tecniche e tattiche di combattimento poste in un’esecuzione composta da precisi movimenti. Sono nati per memorizzare le tecniche e imprimere nella mente un loro possibile corretto utilizzo sul campo di battaglia.
Kumite è infine il combattimento. Una delle regole più importanti di questa applicazione è l’autocontrollo. Senza autocontrollo non è possibile combattere in modo sicuro, in quanto ci si potrebbe infortunare anche in modo grave (fratture ecc.). L’obiettivo, invece, è quello di sprigionare la massima energia, rapidità e forza nell’attacco, in modo da renderlo il più reale possibile ma con il massimo controllo, soprattutto a livello del viso. Ai praticanti più avanzati si permette infatti un contatto “limitato” a livello del tronco, ma in genere non ci deve essere contatto, pur avvicinando il colpo moltissimo. Allo stesso modo, chi difende, deve essere il più veloce e scattante possibile per parare, evitare i colpi, rientrare a sua volta con tecniche di attacco e rimettersi nella posizione che garantisca una difesa impeccabile. Le tecniche eseguite nel kihon e nei kata sono caratterizzate, in alcuni casi, da posizioni che consentono stabilità, permettono movimenti forti e rinforzano le gambe. Le tecniche del kumite rispecchiano queste posizioni e movimenti al livello base, ma con maggior esperienza diventano più flessibili e fluide.

Il Maestro Gichin Funakoshi espose i Venti Principi del Karate (o Niju kun) [28], che costituirono le basi della disciplina. In questi principi, fortemente basati sul bushido (codice di condotta e stile di vita dei samurai) e sullo zen, è contenuta la filosofia dello stile Shotokan. Essi contengono nozioni di umiltà, rispetto, compassione, pazienza e calma sia interiore che esteriore. Il Maestro Funakoshi riteneva che attraverso la pratica del karate e l’osservazione di questi principi, il karateka fosse in grado di migliorarsi, attraverso una crescita personale progressiva. Egli scrisse: “Lo scopo ultimo del karate non si trova nella vittoria o nella sconfitta, ma nella perfezione del carattere dei partecipanti”[26].

Le regole del Karate Shotokan (Dojo kun) [26,27] recitano così:

Hitotsu! Jinkaku kansei ni tsutomuru koto!

Cerca di perfezionare il carattere

Hitotsu! makoto no michi o mamoru koto!

Percorri la via della sincerità

Hitotsu! doryoku no seishin o yashinau koto!

Rafforza instancabilmente lo spirito

Hitotsu! reigi o omonzuru koto!

Osserva un comportamento impeccabile

Hitotsu! kekki no yu o imashimuru koto!

Astieniti dalla violenza e acquisisci Autocontrollo.

Sempre il Maestro Funakoshi scrive [12] che il Karate è esercizio fisico adatto e utile a uomini, donne, vecchi, bambini, giovani, malati e deboli, perché può essere praticato a svariati livelli; è utile come autodifesa (un antico proverbio giapponese recita: “non si dovrebbe avere l’intenzione di ferire gli altri, ma bisogna avere l’intenzione di difendersi”); è disciplina mentale perché vengono coltivate virtù quali coraggio, cortesia, onore, modestia, rispetto, autocontrollo, per quanto ci vogliano per questo molti anni di pratica.

Dunque, nel Karate Shotokan si arriva al contatto fisico controllato e in genere non lesivo e la sua pratica permette uno sviluppo motorio armonico, migliora progressivamente la coordinazione dei movimenti, permette di controllare sempre meglio le reazioni motorie a stimoli esterni, insegna anche ad accettare le regole della convivenza civile, stimolando il rispetto e l’amore verso il prossimo. In questo modo aiuta a conoscere se stessi e le proprie potenzialità, stimola il riconoscimento e l’accettazione dei propri limiti pur nello sforzo “intenso di un continuo miglioramento e pertanto favorisce il processo di crescita dell’autostima. Coinvolgendo la sfera fisica, cognitiva, comportamentale ed emotiva, contribuisce ad uno sviluppo armonico della persona.

Teniamo anche conto che il Karate-Do Shotokan sul piano sportivo può essere approcciato come allenamento fisico oppure come sport agonistico, a seconda delle caratteristiche e delle motivazioni dei singoli atleti, pertanto offre una buona libertà di scelta. Abbiamo già detto che la pratica di tale disciplina può estendersi, attraverso adeguati programmi metodologici, a categorie di popolazione diverse da quelle dell’élite sportiva agonistica, come bambini, anziani [6] e soggetti diversamente abili. Studi vari hanno indicato significativi miglioramenti nella salute mentale, soprattutto di soggetti ansiosi e/o depressi, praticando arti marziali, ma soprattutto Karate (e Judo) [11].         Con opportuni adattamenti ed accortezze nel suo insegnamento, il Karate può essere proficuamente praticato anche dai disabili. Si sono registrate esperienze positive con i ciechi e gli ipovedenti. Il M° Stizzoli, direttore tecnico dell’Itai Doshin e coautore di questo lavoro, ha portato a termine con successo nel 1998 un corso di insegnamento rivolto ai bambini e ragazzi portatori di spina bifida, alcuni dei quali con gravissimi deficit motori che li costringevano alla sedia a rotelle.

Enrico Cembran, medico e Maestro di Karate, fa parte del Comitato Tecnico di una Onlus, la Kids Kicking Cancer Italia Onlus: questa associazione porta avanti un programma di pratica di Karate nei reparti e nei Day Hospital oncologici pediatrici in molte città d’Italia (tra cui al Regina Margherita di Torino), dove si sfruttano i principi e la pratica del karate per sostenere questi piccoli malati nel difficile compito di affrontare e accettare la malattia e per aiutarli nell’autoguarigione ove possibile.

Si tratta anche di valutare attentamente, nell’indicare come attività un’arte marziale, se il soggetto è maggiormente predisposto ad un’arte marziale offensiva o difensiva, tenendo inoltre presente una possibile controindicazione per quei soggetti che potrebbero usare le tecniche di combattimento in maniera inappropriata. Il dibattito è aperto su quale sia effettivamente l’effetto della pratica delle arti marziali, e del Karate in particolare, sull’aggressività e si auspicano ulteriori ricerche in un ambito certamente interessante [24,25]. Negli ultimi vent’anni sono stati portati avanti progetti di ricerca sugli effetti sociali e psicologici delle arti marziali sui giovani, con risultati peraltro discordanti [25]. Si sono avuti casi di miglioramento di quadri depressivi e/o ansiosi e di dimunuzione dei comportamenti aggressivi [8], ma in altri casi si è rilevato un aumento dell’aggressività. [25]. Molte discordanze sono legate alle differenti capacità empatiche e psicologiche degli istruttori (c’è anche un’ importante differenza tra istruttore e Maestro) e agli abbandoni degli allievi e praticanti, ma anche ad alcune difficoltà nell’impostazione delle ricerche.

2. Il caso clinico

Si tratta di un ragazzo di 15 anni, frequentante il 3° anno presso un Istituto professionale con scarso rendimento, privo di amici, vita circoscritta all’ambiente domestico, taciturno coi familiari, senza interessi particolari (TV e video game) attualmente alle prese con la separazione dei genitori. Ha un fratello di 7 anni più vecchio che sta per laurearsi, estroverso, molto brillante sia a scuola che con gli amici. La madre ne descrive un regolare sviluppo: nato a termine con parto spontaneo, allattato al seno per cinque mesi, svezzamento senza problemi, non disturbi del sonno. Ha frequentato la scuola materna senza particolari opposizioni, ma già allora era introverso e poco partecipe ai giochi di gruppo, pur senza disturbare le attività. L’andamento scolastico durante le scuole elementari e medie inferiori è stato caratterizzato da rendimento mediocre, scarsa partecipazione e scarsa socializzazione.

La richiesta di intervento psicoterapico è fatta dalla mamma, preoccupata per il peggioramento dell’introversione del figlio e per gli effetti della separazione.

Fin dal primo colloquio il ragazzo si presenta timoroso e insicuro, anche nella postura: spalle curve, occhi bassi e sfuggenti, un sorriso appena accennato, si muove lentamente e parla a voce sussurrata. Parlando dei coetanei si dimostra molto sensibile ai commenti su ciò che fa o dice, interpretati in ogni caso sempre come molto critici e negativi. Mal tollera i giudizio critico degli insegnanti sul suo scarso impegno scolastico. Racconta faticosamente a bassa voce e con poche parole di essersi dedicato per due anni ad un’attività sportiva come agonista, ma di aver smesso “perché non c’erano risultati”: “a me non piace essere ultimo”. Alla domanda se ritiene di impegnarsi per ottenere i risultati desiderati, alza le spalle e sussurra: “probabilmente non abbastanza”. Confessa di vergognarsi spesso, perché non si sente “adatto” e ha “sempre paura di sbagliare”. Questo lo fa star molto male con gli altri. Sostiene inoltre che le ragazze non parlano con lui, “ma con gli altri sì”. In classe è molto disattento (“non mi interessa questa scuola”) e disturba attirando l’attenzione con atteggiamenti infantili (“i professori mi sgridano, ma i compagni ridono”). Il rapporto col fratello è ambivalente: ne parla con invidia e con aggressività mascherata, definendolo molto diverso da lui, “uno che parla molto e non lascia parlare gli altri”, ma è poi il familiare con cui si confida di più, anche se moderatamente, ed è quello che lo tranquillizza rispetto alla separazione dei genitori.

Nel 2° incontro vengono eseguiti i seguenti test: test delle Favole di Duss [10], test di Machover [17], test del disegno della famiglia [17].

Nel 3° incontro si affronta il suo rapporto col padre e con la madre. Di quest’ultima dà un’immagine di madre accudente anche se sempre indaffarata e attualmente “triste e preoccupata”; del padre si limita a dire che non lo ha capito nell’ambito della separazione, ma non lo vede particolarmente triste. In realtà, afferma di non saper descrivere il padre: “non lo capisco molto”. Aggiunge: “Papà, se non c’è non soffro”. Commenta la casa nuova del papà: “piccolina”. Non aggiunge, neanche dietro mia sollecitazione, alcun altro commento rispetto alla casa, ma dietro mia domanda diretta dice che non c’è una stanza per i figli; non commenta, se non con un’alzata di spalle forse rassegnata. La seduta ha lunghi momenti di silenzio, poiché il ragazzo non esprime nulla se non gli viene posta una domanda chiara e diretta, alla quale peraltro risponde con pochissime parole, talora senza neanche costruire una frase completa.

La 4° seduta è concentrata sul suo rapporto coi compagni di scuola, gli unici coetanei coi quali interagisce. Egli sostiene che questa è la sua vera preoccupazione: lui si sente molto timido e non osa intervenire nei dialoghi dei compagni, “anche perché non ho argomenti da portare”. Chiedo: “Se non fossi così timido cosa faresti?” Risponde: “Uscirei un po’ di più, andrei in giro, non so a fare cosa, ma comunque in giro”. Anche questa seduta è connotata da lunghi silenzi. Il ragazzo non parla spontaneamente, fa molta difficoltà anche se stimolato e dà la sensazione di chiudersi, come se ormai avesse detto tutto quello che aveva da dire. Incomincio a prospettargli l’idea di un’attività sportiva particolare, più di gruppo rispetto alla precedente esperienza, che potrebbe aiutarlo a stare con gli altri. Gli parlo del Karate e gli dico di pensarci su, che ne parleremo la prossima volta.

La 5° seduta si svolge proponendo il progetto terapeutico e aderisce soddisfatto. Esce sorridendo. Mi faccio la fantasia che sia contento di essere stato considerato al centro di un programma pensato specificatamente per lui.

Dalla successiva seduta, si è all’interno del pacchetto psicoterapia – Karate.

L’esame dei test conferma e approfondisce alcuni aspetti della personalità del ragazzo, emersi durante il primo colloquio.

Il ragazzo appare insicuro, inibito, isolato. L’identificazione sessuale si direbbe corretta, anche se sono riscontrabili difficoltà sul versante sessuale, un po’ ascrivibili a curiosità sessuali, un po’ a problematiche nell’approccio con l’altro sesso. La figura femminile infatti viene disegnata asessuata e di età infantile, che, unitamente all’aggressività femminile percepita in maniera forte, indicherebbe un ripiegamento regressivo tranquillizzante all’epoca pre-adolescenziale. Questi sono aspetti abbastanza coerenti con l’età, peraltro un po’ accentuati. Forte il sentimento di inferiorità e inadeguatezza sia fisica che intellettuale, associata ad una significativa dose di aggressività, con operazioni di forte controllo. Il movimento regressivo al periodo dell’infanzia è molto evidente ai test; la stessa età delle figure che disegna al test di Machover (“10 anni”) riporta a circa 5 anni prima, epoca in cui non c’erano evidenti problemi relazionali tra i genitori e non si ipotizzava la loro separazione. Contradditorio appare il rapporto col fratello: alle favole di Duss si evidenzia competizione e anche invidia, riprese da operazioni svalutanti riconoscibili nel test del disegno della famiglia; d’altra parte il fratello viene anche percepito come l’unica figura familiare con un ruolo protettivo nei suoi confronti.

3. Il progetto terapeutico

Col M° Stizzoli si progetta un lavoro in cooperazione che prevede:

n. 9 sedute di psicoterapia psicodinamica adleriana a cadenza mensile, della durata di 45 minuti, in accompagnamento all’esperienza dell’arte marziale;

n. 2 incontri settimanali di Karate stile Shotokan, della durata di 2 ore ciascuno, sotto il diretto controllo del M° Stizzoli, per nove mesi, presso uno dei doji da questo diretti e nell’ambito di un regolare corso di Karate Shotokan;

n. 3 riunioni col M° Stizzoli ed eventuali suoi collaboratori/istruttori che abbiano conosciuto e lavorato col ragazzo per confrontarci sui progressi e/o su eventuali criticità.

Lo scopo dell’intervento è ottenere un miglioramento della sfera relazionale con iniziale incremento del sentimento sociale e della capacità di cooperazione.

4. Esiti
4.1.Considerazioni del Maestro

Inserito in un gruppo di livello di preparazione misto (la scelta del dojo è stata fatta dalla mamma in funzione della difficoltà di raggiungere la sede con praticanti più omogenei), ha sempre svolto malgrado le difficoltà del neofita il lavoro proposto con grande impegno ed attenzione, riuscendo spesso ad eseguire esercizi in combinazioni particolarmente difficili per il suo livello di preparazione, anche meglio di altri compagni con un maggior numero di presenze rispetto alle sue. Particolarmente significativo è stato il suo atteggiamento nello spogliatoio: il ragazzo si presentava inizialmente sempre con la testa bassa e con un atteggiamento schivo, salutava a malapena e non rivolgeva la parola a nessun altro al di fuori del Maestro. Poco per volta il suo atteggiamento si è aperto, il capo era più eretto e a volte riusciva anche a sorridere a qualche battuta scherzosa e a qualche complimento per l’esecuzione dei suoi esercizi. Ho notato un cambiamento in positivo nel suo atteggiamento sia rispetto all’attività sia rispetto ai compagni, come se cominciasse piano paino ad acquisire consapevolezza delle sue capacità e del suo potenziale. Ha sempre dimostrato grande impegno ed attenzione e manifestato interesse per l’attività svolta.

I nove mesi di frequenza non sono stati peraltro sufficienti per far iniziare al ragazzo un percorso agonistico, ritenuto fondamentale non tanto per i possibili risultati quanto per l’opportunità di confrontarsi con la propria emotività ed i propri timori.

Ho più volte segnalato l’assenza del padre alle lezioni. Al contrario, il ragazzo è sempre stato accompagnato dalla madre, che su mio invito si fermava e seguiva l’allenamento.

4.2.Considerazioni della psicoterapeuta

Il ragazzo è stato presente e puntuale ad ogni incontro (portato dalla mamma). Non ha espresso chiaramente a parole alcun commento rispetto alla psicoterapia, fatta eccezione alla 4° seduta, in cui ha affermato “di essere contento che la mamma lo porti”.

L’atteggiamento corporeo si è modificato nel tempo: nei nostri primi incontri lo sguardo era sempre rivolto a terra, era sfuggente e mai rivolto verso di me; le spalle erano curve, sulla sedia era come afflosciato, con una mimica del viso quasi assente. Negli utlimi incontri, invece, pur parlando sempre poco, usava un tono di voce più alto, mi guardava in viso, stava più eretto sulla sedia, raccontava qualche episodio dell’attività di karate di sua spontanea volontà, senza necessità di stimoli specifici. A questo proposito sottolineava spesso che gli piaceva molto sia l’attività che il Maestro, ma che la mamma faceva molta fatica ad accompagnarlo perché “lavora molto”, mentre il papà “non si interessa”.

5. Considerazioni finali

Sarebbe stata auspicabile una continuazione della frequenza al karate presso il dojo del M° Stizzoli, ma l’anno successivo la mamma ha deciso contro la volontà del ragazzo di scegliere una palestra più vicina, peraltro ancora ad attività di karate, ma con scopo esclusivamente sportivo. Per quel che riguarda la psicoterapia il percorso è stato completato; né la mamma né il ragazzo hanno da allora contattato la terapeuta, mentre il ragazzo ha inviato gli auguri di Natale via e-mail al Maestro Stizzoli.

Si può affermare che al termine del percorso pattuito si sono ottenuti i miglioramenti preventivati, sicuramente modesti ma coerenti con le sofferenze esperite da questo ragazzo.

La separazione dei genitori, portata a compimento durante la psicoterapia, si è rivelata fattore contrastante il nostro intervento. Purtuttavia, la strategia adattativa fittizia della opposizione all’ambiente, compensazione alla percezione di una propria intensa inferiorità, così evidente all’inizio del percorso, sembra essersi ridotta, a fronte sia di una maggiore partecipazione dialogica durante le sedute di psicoterapia sia con un comportamento più aperto e sereno nel gruppo di karate.

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Maria Luisa Caviglia  –  Medico psicoterapeuta, consulente psicologica dell’A.S.D. ITAI DOSHIN di Torino  – cav.marisa@gmail.com

Franco Stizzoli  –  Maestro di Karate, cintura nera 6° Dan, Kyoshi di Goshin-do, dipl. Scienze Motorie, Dir. Tec. dell’A.S.D. ITAI DOSHIN di Torino –  franco.stizzoli@gmail.com

L’articolo completa un lavoro presentato sotto forma di poster al XXIV Congresso Nazionale della S.I.P.I. Società Italiana di Psicologia Individuale, tenutosi a Norcia il 18-19 aprile 2015