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PIGRIZIA, INDOLENZA, MOTIVAZIONI

La soddisfazione sta nello sforzo, non nel risultato.Uno sforzo completo è una vittoria completa.
Mahatma Gandhi

a cura di Maria Luisa Caviglia, psicoterapeuta e consulente psicologica sportiva dell’Associazione

KARATE
è divertimento
è sapersi riconoscere, anche tra chi non si è mai visto, ed è sapere, anche solo per un momento,
di far parte di un piccolo cosmo dove si consumano passioni comuni
è straordinaria fabbrica di emozioni
è porsi degli obiettivi e impegnarsi per raggiungerli è sentirsi parte di un gruppo e di quel gruppo saperne rispettare le regole e le gerarchie,
è saper collaborare e saper condividere
è rispetto

Se il karate è tutto questo perché alcuni allievi appaiono colti da forte pigrizia, tanto da dimostrare poco impegno, da non presenziare con regolarità agli allenamenti, da saltare talora gli incontri agonistici? E’ questo un problema che si osserva soprattutto coi giovani adolescenti, anche se può colpire ad ogni età.
Talvolta l’assenza viene ascritta all’impegno scolastico, ma con buona volontà e impegno organizzativo ormai è risaputo che scuola e sport si conciliano bene, anzi si potenziano a vicenda.
Talora viene addotta come scusa la stanchezza.
Ma sorprende come nell’età in cui il vigore del corpo, fisiologicamente, è al suo massimo, la stanchezza prenda così il sopravvento Si parla allora di pigrizia o di indolenza.
Ma cos’è la pigrizia? Il vocabolario della lingua italiana Zingarelli la descrive così: (…) caratteristica della persona che è restia ad agire, a muoversi (…)
L’indolenza è qualcosa in più; può essere usato come termine sinonimo di “pigrizia”, ma nella sua etimologia la parola porta con sé anche “non dolore”, dunque indica anche l’apatia, che lega la pigrizia all’insensibilità, al disinteresse…
Io credo che la pigrizia non faccia parte del bagaglio ereditario, in quanto ogni individuo nasce con un’innata spinta a produrre; l’atteggiamento del pigro ha delle cause che vanno ricercate.
La verità è che tutta la vita dell’uomo, fin da quando nasce, è orientata da un movimento finalistico; si tratta di un finalismo “morbido” perché modificabile, ma che sempre, consciamente e inconsciamente, ci sospinge verso una meta.
La meta, lo scopo, è da identificare, bisogna averne almeno l’idea, considerarne la possibilità.
Pensiamo a quanta energia sanno dimostrare i più giovani nel partire la mattina presto se li aspetta una gita con amici con cui stanno bene Segno che (per fortuna) i ragazzi sanno spendersisenza troppi calcoli per un’ipotesi convincente. Dunque per muoversi ed impegnarsi e anche per sostenere quel po’ di sacrificio che l’impegno sportivo richiede c’è bisogno di un senso, di una direzione. Se lo scopo manca o non è chiaro o non è condiviso la noia prende il sopravvento e porta al non fare.
Dunque, quando un bambino o un ragazzo si “ritira” (non frequenta più le lezioni oppure non si impegna più, è disattento e disinteressato) c’è qualcosa che non va. Potrebbe trattarsi di un problema di autostima, per esempio espresso dal percepirsi insufficienti sul profilo della  prestazione, magari a causa di genitori o anche allenatori troppo esigenti. O, ancora, è il segnale di un disagio su un altro piano (difficoltà scolastiche che turbano, difficoltà relazionali, delusioni esistenziali, disagi familiari, abusi…). Oppure c’è una crisi motivazionale.
Vorrei soffermarmi su quest’ultimo aspetto.
I motivi principali alla base della scelta di praticare una disciplina sportiva sono:
il divertimento;
il desiderio di stare con gli amici o di farsene dei nuovi (affiliazione);
l’acquisizione e il miglioramento delle abilità sportive (competenza);
l’affrontare situazioni eccitanti per tentare di superarle (attivazione);
il mantenimento della forma fisica.
Ma anche:
– incanalare le proprie energie e sfogare eventuali tensioni;
– raggiungere il successo acquisendo così prestigio, status sociale sempre più elevato e rinforzi estrinseci.
Esistono motivazioni intrinseche, per le quali si compie un’azione perché motivati dal piacere che procura l’attività in cui si è impegnati; qui vi è una spinta interiore che sostiene il desiderio di far bene e l’impegno in un’attività dalla quale la soddisfazione proviene da ciò che si fa e da come lo si fa. Lo sport in questo caso può essere visto come il modo per sentirsi realizzato nella tensione verso una meta importante per se stessi, dove vengono posti continuamente nuovi limiti da superare via via per arrivare al più alto grado di eccellenza. La forza della motivazione intrinseca è tale che in genere si nota una maggiore facilità nella gestione delle difficoltà, degli infortuni e delle eventuali incomprensioni con allenatore e/o compagni, tutti ostacoli sentiti come temporanei, che
non distolgono l’atleta dal portare a termine il suo compito.
Ed esistono motivazioni estrinseche, in cui la spinta è soprattutto data dal bisogno di ottenere un’approvazione esterna. In questo secondo caso l’atleta ha bisogno di continui rinforzi, positivi e anche negativi, da parte di altre persone per portare avanti il suo impegno. Una motivazione può essere vincere medaglie, ottenere ricompense finanziarie, ottenere attenzione.
Dall’equilibrio di motivazioni intrinseche ed estrinseche può originare il successo dell’atleta. Infatti gli atleti che sono motivati soprattutto estrinsecamente tendono a scoraggiarsi per esempio quando sperimentano un calo di forma; al contrario gli atleti motivati intrinsecamente spesso nonhanno la spinta competitiva per diventare campioni, poiché tendono a soddisfarsi col solo padroneggiare i compiti della disciplina scelta.
Gli allenatori devono essere consapevoli di tutto ciò, sapendo che promuovere le motivazioni intrinseche certo fornisce i migliori risultati psicologici per i bambini. Molti genitori invece sono responsabili di aver sottolineato con enfasi più la conquista della vittoria che la partecipazione alla competizione per divertimento, favorendo l’abbandono prematuro. Infatti, essere determinati esclusivamente da motivazioni estrinseche non è psicologicamente sano, perché la mancanza di motivazioni intrinseche può portare a smettere, là dove invece la motivazione intrinseca aiuta a superare le zone carenti della carriera e mantiene l’accento sul divertimento. Sarebbe bello che allenatori e genitori lavorassero in sintonia per creare un clima positivo motivazionale per i giovani
atleti.
Alcuni consigli utili:
– non attribuire troppa importanza ai risultati: l’aspettativa di una medaglia non è cosa negativa, ma non deve essere l’unico obiettivo (rischio dell’ansia da prestazione, tipica dei ragazzi che rendono molto meglio in allenamento che in gara);
– prestare attenzione all’impegno e ai miglioramenti con se stesso
– non fare paragoni
– rinforzare e incoraggiare sulla base della prestazione più che per la vittoria

a cura di Maria Luisa Caviglia, psicoterapeuta e consulente psicologica sportiva dell’Associazione